Le moodboard uccidono la creatività
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Qualcosa è andato storto
Quando vengo coinvolto in un nuovo progetto come assistente digitale o come postproduttore spesso mi vengono condivise le principali informazioni che mi serviranno per assimilare la tipologia di lavoro, preparare i materiali, fare le dovute precisazioni e anticipare eventuali problematiche che potrebbero sorgere sul set o nella fase del fotoritocco. Fra le tante informazioni scritte, sicuramente la moodboard o le “immagini di reference” sono i materiali che non mancano mai. Ed è giusto così. Avere le idee chiare su cosa si andrà a fare è fondamentale e aiuta ad avere una visone più definita di cosa si andrà a realizzare, sia per il fotografo, sia per il cliente che a volte fatica di più a immaginarsi il risultato finale. Un’immagine lo sappiamo è decisamente più diretta, chiara e di facile lettura per tutti. Ma…
Ultimamente stando sui set, confrontandomi con fotografi e agenzie, ha iniziato a formarsi un pensiero nella mia testa che purtroppo sta trovando sempre più riscontro sulla realtà quotidiana del mio lavoro: e se la moodboard, invece che potenziarla, uccidesse la creatività?
Paradossale lo so, ma a quanto pare qualcosa è andato storto e forse quasi nessuno se ne è reso conto.
Tutti vogliono lo scatto ADV che spacchi, tutti vogliono distinguersi dalla massa, tutti vogliono creare qualcosa di nuovo di diverso dal principale competitor, tutti vogliono essere originali. È così, è un dato di fatto. È di questo che si discute nelle “call” o nelle riunioni vecchio stile fra clienti, fotografi e creativi.
Si passano le settimane a discutere, rivedere dettagli e immagini di reference, si sottopone il cliente a vari ragionamenti per arrivare finalmente alla moodboard definitiva. Che poi diciamolo moodboard e immagini di reference sono due cose ben diverse ma alla fine dei conti chi se ne frega, no? Un po’ come i dpi e i ppi. Li chiamo pensieri a bassa risoluzione e mi sono messo il cuore in pace.
Dopo innumerevoli call, mail, discussioni, arrivati all’approvazione finale di costi, lavorazioni e moodbaord il cliente (e a volte anche l’agenzia e gli art director) finiscono con l’immaginarsi gli scatti sulla base delle immagini che hanno visto e difeso a colpi di spada in quella moodborad che finalmente viene rinominata in “MOODBOARD_DEF.pdf” di 10 pagine che pesa oltre 500MB e che ci si invia tramite wetransfer. Perché l’essere creativi non lascia spazio ad avere la sensibilità di esportare un file leggero con un semplice click da Acrobat, PDFExpert, Keynote o qualsiasi altra app.
Il giorno dello shooting la storia si ripete, moodboard stampata e appiccicata sul set in più copie e quello che si andrà a fare sarà esattamente quello, ovviamente! Non vorrai mica buttare all’aria tutte quelle ore e fatiche per arrivare all’approvazione del cliente, no? Moodboard fatta di scatti già visti e rivisti, stereotipati, spesso con schemi luci completamente diversi tra loro, con color apparentemente simili ma tecnicamente impossibili da fare su una sequenza di scatti senza cambiare make-up/abiti/dettagli. Ma il cliente ormai ha quello in testa e se lo aspetta decisamente migliore. Ecco che la moodboard si rivolta contro a chi il lavoro lo deve fare e si trova a gestire una situazione impossibile con i tempi a disposizione. Il fotografo scelto fra mille per il suo stile che si trova costretto a seguire alla lettera le richieste dell’art-director e del cliente, sostanzialmente è lì per fare il classico “click” dopo che l’assistente ha posizionato le luci, e la modella/o che “no, così non funziona. Mostrate alla modella/o la foto di reference, quella è la posa che deve fare”. Già alla fine, senza saperlo, si sta facendo una brutta copia di quella foto che inizialmente doveva solo essere di esempio, di stile. Doveva essere quello che doveva essere, ovvero un’immagine di una moodboard.
Il fotografo fa click, la modella/o si trova a ricalcare pose non sue, il risultato è quasi sempre mediocre, ben lontano dallo scatto che “spacca”. “Poi in post questo si sistema, questo lo cambiamo, questo lo modifichiamo e vedrai che spettacolo” cit.
Nessuno vuole più prendersi la responsabilità, è questo il nocciolo della questione.
Nessuno, specialmente le agenzie, non sono disposte a dare la responsabilità al fotografo, a dare valore alla sua professionalità e lasciarlo libero di scattare e di decidere quello che poi sarà l’immagine che farà la differenza. Non ci possono essere esitazioni davanti al cliente, è brutto dire “no questo non funziona proviamo a cambiare posa o spostare qualche elemento della scena” non si fa, non c’è tempo. “Non vi hanno detto che oggi bisogna fare anche i video per i reels?”
I modelli sono presi e messi nel frame chiedendo di ricalcare pose ed espressioni che spesso non sono le loro, con risultati ovviamente innaturali e che non convincono nessuno. Perché nessuno da spazio ai modelli? Se sono professionisti sanno come muoversi, sanno quali sono le pose che sentono proprie e che su di essi rendono al massimo. Lo sanno! Lasciamo fare a ognuno il proprio lavoro, lasciamo la libertà di espressione che porterà poi ad avere il progetto che tutti volevano, gli scatti veri, autentici, che funzionano, che girano, ditelo come vi pare ma ci siamo capiti. Lasciamo fare alla moodboard quello per cui è nata, per dare un riferimento di stile non per essere copiata spudoratamente.
Invece no, stiamo diventando schiavi di questa maledetta moodboard o peggio delle foto di reference che sono state approvate e che quindi l’agenzia può usare contro il cliente se gli dirà che il lavoro non è soddisfacente. Non c’è spazio per la creatività vera di ogni professionista sul set, non c’è più la tranquillità di provare e ricercare lo scatto perfetto. Il giorno dello shooting sta sempre più diventando la scena del “pariamoci il culo” facciamo quello che vuole il cliente, quello che è stato approvato nella moodboard. Poi se non va bene (e spesso è così) cazzi loro, noi abbiamo fatto quello che ci è stato detto. Con il piccolo inciso che spesso il cliente non ha le competenze, la sensibilità e le attitudini per gestire uno shooting e l’editing delle immagini.
Che poi basta veramente poco per capirlo, quante volte è successo che dopo aver fatto 200 scatti della stessa scena che non convince il cliente, in quel momento vuoto dove si sta aspettando l’ok dall’alto, la modella stanca improvvisa una posa, il fotografo innervosito stacca la macchina dal treppiedi e scatta come gli viene la foto che aveva in mente, fuori da ogni linea guida e arriva l’immancabile cazziatone “no, non così! Questa prospettiva non va bene e la modella non deve sorridere”, per poi trovarsi quello scatto fra le scelte da postprodurre.
Una curiosità sul colore
ROSSO DI COCCINIGLIA
Per secoli è stata una delle tinture di origine animale più utilizzate. È utilizzata ancora ai giorni nostri come colorante alimentare, commercializzato con il nome E120.
Lo si trova in molte bevande rosse come aperitivi e bitter, succhi di frutta, ma anche in cibi come yogurt, gelati, torte alla frutta e caramelle. Fra i marchi più famosi che ne hanno fatto uso compare Starbucks, liquore Alchermes e Campari.
Per produrre un chilogrammo di colorante occorrono circa 80-100 mila insetti. Visto l'elevato costo, ultimamente viene spesso sostituito da coloranti di origine sintetica.
I coloranti alimentari sono utilizzati ovunque. Chi si occupa di marketing sa benissimo quanto il colore possa influenzare l’acquisto di un prodotto, la stessa cosa vale per il cibo e le bevande. Ci sono molti esperimenti documentati a riguardo, quello che mi è rimasto più impresso riguarda il vino. A un gruppo di sommelier sono stati serviti due calici di vino, uno bianco e uno rosso. Il loro compito era descrivere il vino in modo dettagliato. In quasi tutte le descrizioni del vino rosso i sommelier avevano percepito note di frutti rossi che non avevano trovato in quello bianco. Peccato che i due calici contenessero lo stesso vino bianco, in quello rosso era stato aggiunto del colorante rosso insapore. Questo fa capire il potere che ha il colore nel generare sensazioni gustative.
Tornando ai coloranti alimentari sul mercato vengono identificati con dei codici che iniziano con la lettera E seguita da un numero:
dal 100 al 109 i gialli 🟡
dal 110 al 119 gli arancioni 🟠
dal 120 al 129 i rossi 🔴
dal 130 al 139 i blu e i viola 🔵🟣
dal 140 al 149 i verdi 🟢
dal 150 al 159 i marroni e i neri 🟤⚫️
dal 160 al 199 vari altri colori, con molti codici ancora liberi per future aggiunte.
Per capire il potere dei colori nel cibo provate ad immaginare di mangiare una fragola blu oppure di gustarvi un ghiacciolo arancione al gusto menta.
Link interessanti
Nuovo aggiornamento per Capture One 23. Arriva il supporto al formato ProRAW di Apple e miglioramenti alle funzioni che sfruttano l’AI 👉 captureone.com
La Fisica dell'Arcobaleno 👉 Curiuss youtube.com
Chrome 111 beta (New CSS color types and spaces) 👉 developer.chrome.com
Meglio non fidarsi delle informative sulla privacy sull'app store di Google 👉 wired.it
Qualcosa di personale
Qualche giorno fa FOTO Cult ha pubblicato un’articolo su di noi, o meglio l’intervista che abbiamo fatto a gennaio. Intervista che devo dire molto interessante alla quale abbiamo partecipato con molto entusiasmo. Si parla di come è nata PixelFactory ma anche di come vediamo l’evoluzione del mercato della fotografia e dell’impatto che l’intelligenza artificiale avrà nel prossimo futuro in questo settore.
Ringrazio tutta la redazione di FOTO Cult per averci coinvolto in questa “chiacchierata” interessante e faccio i miei complimenti per come stanno rivoluzionando il loro progetto passato quest’anno a una versione completamente digitale.
Puoi leggere l’articolo qui 👉 PixelFactory: postproduzione e supporto digital sul set fotografico
E quindi?
L’obiettivo di questa newsletter è trattare temi che rappresentano il futuro (ma anche il presente) dell’industria della content creation digitale.
Il giorno in cui qualcuno mi dirà di smetterla, lo farò. Promesso.
Il mio nome è Manuel Babolin e con altri due matti ho fondato PixelFactory, nel cui blog approfondisco alcune cose. Ho un progetto sulla gestione colore nei device digitali che si chiama Wide Gamut.